Diamanti, storia di una fregatura a 100 carati
Diamanti, storia di una fregatura a 100 carati
Migliaia di risparmiatori hanno investito nelle pietre preziose. E a distanza di anni, molti non sono ancora riusciti a riavere i loro soldi
Correggio, provincia di Reggio Emilia, anno 2010. Sergio B., 52 anni, impiegato, riceve dalla banca la proposta di investire in un prodotto sicuro: i diamanti. Con la crisi sui mercati finanziari innescata dal fallimento Lehman del 2008 e con l’euro che rischia di saltare per colpa della Grecia, avere in tasca delle pietre preziose non sembra una cattiva idea: non è così che si fa quando ci sono le guerre? Lo si vede anche nei film. E poi non si pagano tasse.
Il risparmiatore accetta, investe 30 mila euro e a causa di questa decisione sta per diventare uno degli oltre centomila italianirisucchiati in una vicenda incredibile, pilotata da società e da istituti di credito senza scrupoli, segnata dall’assenza di Consob e Banca d’Italia e fonte di innumerevoli sofferenze, perfino di un suicidio. Una storia che ha proprio nella provincia di Reggio Emilia il suo epicentro: viene infatti da lì Claudio Giacobazzi, presidente e amministratore delegato della Intermarket Diamond Business (Idb) di Milano, la società più attiva nel mercato dei diamanti per investimento. È in quell’area che si concentra il maggior numero di risparmiatori turlupinati. Ed è in un motel della città emiliana che il manager della Idb si toglie la vita il 14 maggio di quest’anno. Ma nonostante l’intervento dell’Antitrust, le sue multe (confermate il 14 novembre scorso dal Tar) e la decisione di alcune banche di restituire tutto l’importo ai correntisti, il caso non è concluso e migliaia di clienti aspettano ancora di riavere il capitale investito in un prodotto che era ben diverso da quanto descritto in banca.
«Fu un funzionario della Bpm a chiamarmi e a propormi l’affare» racconta Sergio di Correggio. «Mi diceva che i diamanti erano un bene rifugio, mi mostrava i grafici con i valori in continuo aumento, le quotazioni che uscivano ogni tre mesi sul Sole-24 Ore». Per le banche proporre l’investimento in diamanti non è una novità. Secondo la ricostruzione dell’Antitrust, in questo mercato operano in Italia diverse società: la Idb e la Diamond private investment (Dpi) di Roma sono di gran lunga le più importanti, che operano da anni principalmente attraverso il canale bancario. Agli istituti di credito offrivano in sostanza due vantaggi: una commissione pari al 10-20 per cento dell’investimento del cliente e la possibilità di aumentare la gamma di prodotti da presentare ai correntisti. Da parte sua, l’azienda di credito segnalava alle società dei diamanti il potenziale cliente e inoltrava le disposizioni di acquisto sottoscritte dall’acquirente. I diamanti venivano consegnati al risparmiatore in un blister, oppure restavano nelle casseforti della Idb o della Dpi senza costi aggiuntivi. Il contratto con le società prevedeva che le banche non assumessero alcuna responsabilità riguardo alle caratteristiche dei prodotti, equità del prezzo, autenticità delle pietre.
Le banche con cui la Idb e la Dpi hanno fatto più affari sono il gruppo Bpm e l’Unicredit seguiti dal Monte di Paschi e altri istituti, incluse alcuni di credito cooperativo. Le vendite, cresciute con regolarità fino al 2009, sono raddoppiate nel 2009-2010 e nel 2010-2011, in coincidenza con la crisi Lehman e dell’euro. Il picco delle vendite è stato raggiunto nel 2015-16. Ci sono risparmiatori, riferiscono alla Federconsumatori, che hanno investito nei diamanti anche 400 mila euro.
I diamanti da investimento appartengono alla fascia qualitativa più elevata nella scala di classificazione internazionale delle pietre preziose. Il loro valore è certificato da laboratori specializzati mentre il prezzo non ha un fixing ufficiale, ma è possibile verificarlo su alcuni listini di riferimento, come il Rapaport price list o l’International diamond exchange, utilizzati dai grossisti.
Cose che ai risparmiatori non interessavano più di tanto: sapevano che potevano investire come minino 5 mila euro esentasse, che avrebbero dovuto tenere i diamanti per almeno sette anni per pagare la commissione minima del 7 per cento (altrimenti la commissione era più alta) e che, se avessero voluto vendere, ci avrebbero pensato la Idb o la Dpi a trovare un compratore nel giro di una quarantina di giorni. Ma la cosa più importante è che si fidavano della loro banca. «Ero cliente della Popolare di Lodi da 40 anni» racconta Roberto L., artigiano, «e quando il funzionario mi ha detto che si trattava di un investimento sicuro, che mi avrebbe garantito il 5-6 per cento, gli ho creduto. Mi proponeva di spendere 20-30 mila euro, per fortuna mi sono limitato a comprare diamanti per 10 mila euro». «Io ho perso tutto, 108 mila euro, i 3 quarti di tutti i miei risparmi di molti anni» riferisce Paolo. «Ho sbagliato a fidarmi della Banca Popolare di Chiavari. Come a molti altri mi era stato consegnato un foglio in cui attestavano che il rischio era zero, quindi non basso, ma nullo. L’elemento negativo era solo l’obbligo di attesa di circa sette anni. All’epoca avevo un lavoro che mi consentiva di risparmiare qualcosa e quindi caddi nella trappola. Ho fatto valutare i diamanti dalle 3 gioiellerie della Liguria che pare trattino maggiormente i diamanti: il valore è circa 16 mila euro e me ne darebbero circa 12-15 mila. Quindi circa il 12 per cento dell’importo investito».
Una differenza abissale dovuta non solo a una ottimistica valutazione delle pietre da parte del venditore, ma soprattutto a una serie di spese comprese nel prezzo dei diamanti che non erano a conoscenza né del cliente, né, a quanto pare, delle banche: come ha scoperto l’Antitrust nella sua indagine, al costo della pietra all’origine si aggiungono infatti altri oneri tra cui i costi doganali e di trasporto (1-5 per cento), il margine per la società (20-40 per cento), la commissione della banca (10-20 per cento), l’Iva del 22 per cento. Così il diamante rappresenta, se va bene, solo il 30-40 per cento dell’investimento complessivo. «Nel materiale promozionale diffuso» nota l’Antitrust «non è presente alcuna indicazione che rappresenti, seppure a grandi linee, che il costo di acquisto della pietra ha una incidenza minoritaria sul prezzo totale di acquisto. Tale informazione non era neppure nota ai funzionari bancari che avevano segnalato ai risparmiatori questa opportunità di investimento, come emerge da alcune mail in cui i funzionari bancari chiedono delucidazioni a Idb sulla notevole differenza nelle quotazioni». Inoltre, i prezzi pubblicati sull’autorevole Sole-24 Ore non erano altro che inserzioni pubblicitarie (indicazione, questa, successivamente inserita dal quotidiano economico).
Già nel 2011 alcuni risparmiatori si resero conto di quanto era difficile liquidare l’investimento effettuato, e che c’era una forte differenza tra il prezzo pagato per l’acquisto dei diamanti ed il loro valore di mercato. Ma il sistema girava alla grande senza problemi: tra il 2013 e il 2016 vengono piazzate in banca ogni anno tra le 10 e le 20 mila pietre. La sola Bpm intermedia circa 600 milioni di euro in diamanti.
Poi scoppia il caso. Ne parlano i giornali (tra i primi, La Verità), si muovono le organizzazioni dei consumatori (come Aduc, Altroconsumo, Federconsumatori), soprattutto ne parla la televisione con un’inchiesta di Report dell’ottobre 2016 che spinge migliaia di clienti a rivolgersi alle proprie banche per riavere i soldi e liberarsi delle pietre. E così il meccanismo si inceppa, perché le società dei diamanti non sono più in grado di ricollocare le pietre, né si accollano il riacquisto. Da due anni Luigi, cliente della Bpm di Cremona, sta cercando di riottenere il capitale investito, ma senza successo: «Mi propongono il 35 per cento più i diamanti, ma non mi sta bene».
«In questa vicenda i risparmiatori sono stati lasciati soli» commenta Danilo Mimmi di Altroconsumo. «La Consob si è tirata fuori in quanto il diamante non è un prodotto finanziario, la Banca d’Italia perché non è un prodotto bancario». Nel 2016 Altroconsumo segnala all’Antitrust la possibile scorrettezza delle pratiche commerciali di Idb nell’offerta dei diamanti da investimento. L’autorità per la tutela della concorrenza inizia a indagare e nell’ottobre 2017 multa per più di 15 milioni di euro le due società venditrici di diamanti e quattro banche: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps e Bpm. Il problema è che solo alcuni istituti sono venuti incontro ai clienti: Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno deciso di restituire il 100 per cento del capitale investito. «Il Monte dei Paschi» spiega Rino Soragni della Federconsumatori di Reggio Emilia «sta prendendo tempo, ma si è impegnata a fare come Intesa e Unicredit. Mentre la Bpm, che ha venduto diamanti più di tutti, per ora si limita a offrire solo una parte del capitale». «Dopo tre incontri in banca» lamenta Patrizia di Melegnano «mi hanno offerto il 35 per cento dei 40 mila euro investiti, più i diamanti: ma io che ci faccio con quelle pietre? Dove le vendo?». All’orizzonte si profila un’ondata di cause legali, mentre la Procura di Milano sta indagando sulla Idb: il caso dei diamanti non è chiuso.
articolo di Guido Fontanelli – www.panorama.it
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